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V. Otrošenko
Didascalie a foto d'epoca
a cura di Mario Caramitti, traduzione di Mario Caramitti e Bianca Sulpasso, Voland, Roma 2004
(Recensione di Gabriella Imposti)

L’attacco del romanzo ti coinvolge immediatamente proiettandoti in una dimensione straniata, fantastica: “quando le basette di zio Semen si incendiarono, lui decretò il lutto nella casa, ordinò di stendere del satin nero su tutti gli specchi e indossò un abito nero con il collo di raso e un tal puzzo di naftalina che tutte le zanzare e le mosche che si trovavano in casa volarono via all’istante” (p. 11). E invero le basette costituiscono il segno distintivo di questa singolare famiglia il cui capostipite, Malach Grigor’evič Mandrykin, definito “l’immortale”, rimane “irreperibile per una quarantina d’anni” (p. 19) nei recessi di una casa sterminata come il mondo, tra ciarpame di varia natura e insetti repellenti dopo aver adempiuto all’ultimo coito da cui era originato l’ultimo zio, Izmail, nato anch’egli, ovviamente, con le basette. Sono dodici i figli di Malach, a cui si aggiunge, come un tredicesimo apostolo, Semen, figlio del “greco” Antipatros, e concepito dalla madre, Annuška – una sorta di “umida madre terra” inesauribilmente feconda – durante l’assenza dell’“immortale”. Il plot di questo romanzo potrebbe dunque essere riassunto così: “come Annuška riuscì a gabbare il vecchio baggiano e a riprendersi dall’orfanatrofio il figlio dell’amore senza suscitare sospetti”.

La narrazione è meandrica e non si cura di accompagnare il lettore passo passo, anzi sembra gioire del suo disorientamento tra le steppe della foce del Don, le montagne del Caucaso, le campagne belliche nella Galizia e in Persia, le tournée del circo del greco in Africa, la cui sagoma è serbata dall’unico pezzo di carta scampato all’incendio che il fulmine scagliato da un Giove adirato aveva attizzato nella favolosa e lontana Repubblica di San Marino onde distruggere il Libro delle profezie del greco e tutte le sue reliquie. Il narratore stesso infine, come del resto l’Ignatij Stavrovskij, relatore della conferenza sul “perché il grande tamburmaggiore odiasse i viaggi” (Otrošenko, Testimonianze inattendibili, Roma 1997), parla dallo “sperduto regno del Druk-Yul, il minuscolo Bhutan” (p. 113) allargando infinitamente la prospettiva spaziale in cui si inserisce il romanzo, in una sorta di passione “mongolica” per gli spazi illimitati che, peraltro, pare ossessionare lo scrittore stesso, il quale ne ha parlato in più occasioni, non ultima quando un anno fa durante il convegno bolognese, Post-scripta. Incontri possibili e impossibili tra culture, ha parlato sul ruolo dello spazio statale e geografico nell’autocoscienza dello scrittore (in corso di stampa per i tipi del Poligrafo di Padova).
E se il lettore volesse raccapezzarsi nelle coordinate temporali della narrazione, invano cercherebbe di segnare un punto fermo. Le fotografie che successive generazioni di fotografi si affaccendano a scattare diventano “baluardo di inebriante immobilità in un oceano di mutevoli immagini e tempo fluttuante” (p. 56). Questo tempo rappreso, quasi sospeso, sembra poi dilatarsi, senza mutamenti, nella vastità misteriosa della casa e nell’estensione quasi epica della vita dei singoli personaggi le cui immagini color seppia hanno tutto il gusto degli inizi del secolo, con tanto di mustacchi e basette sui volti intenti, quasi ieratici, le uniformi da cosacco, le sciabole e le pistole dal calcio di madreperla. Le uniche date che la narrazione lascia trapelare sono quelle della Prima guerra mondiale, uno spartiacque epocale che segna la fine anche di quella favolosa cosaccheria, che è sostanzialmente la vera protagonista di questa e di altre opere di Otrošenko. Il lettore, infatti, invano cercherebbe indizi o riferimenti all’epoca sovietica, solo forse nel capitolo “AllegOrie” potremmo coglierne un accenno nel personaggio del “commissario di zona” (p. 64). Ma questa fissità temporale che al massimo riesce a proiettarsi all’indietro, “ai tempi senza inizio” del fotografo Friedrich Karlovič Seutter “che avevano dato i natali a Malach e ad Annuška, al loro figlio maggiore [Profirij]” (p. 104) trova una sua ragion d’essere e una sua giustificazione poetica proprio in quell’album fotografico del titolo originale, dal quale, con felice scelta, i traduttori hanno derivato il titolo italiano, Didascalie a foto d’epoca, che ben rende l’idea attorno alla quale tutto il libro è costruito con grande coerenza e solidità nonostante l’apparente caoticità del racconto (i titoli originali erano Priloženie k fotoal’bomu. Roman e Dvor pradeda Griši. Desjat’ novell i epilog).
Se infatti dovessimo trovare una metafora della modalità narrativa di Otrošenko in questo romanzo, dovremmo ricorrere alla figura della spirale che torna sempre allo stesso punto ma a un livello diverso trascinando con sé il lettore, confuso e avvinghiato sempre di più nelle sue spire, che di volta in volta aprono o chiudono bagliori di senso. Lo stile narrativo di questo scrittore appena quarantenne ha indubbiamente subito nel corso della sua attività letteraria un’evoluzione profonda che procede verso una sempre maggiore complessità e serratezza, a causa anche del gusto barocco che lo pervade. Ciò è particolarmente evidente in questo volume grazie alla scelta di pubblicare in appendice un gustoso ciclo di dieci “novelle” – e su questa definizione di genere torneremo tra poco – scritte proprio agli esordi della carriera di Vladislav Otrošenko (1987), Il cortile del bisnonno Griša. Ritroviamo qui la stessa ambientazione cosacca e il gusto per i personaggi strampalati e iperbolici – a volte decisamente grotteschi, come il vicino Nikolaj Makarovič o il vecchio Semen il Gobbo – del romanzo. C’è anche il brulichio di insetti più o meno repellenti, di animali da cortile, di cianfrusaglie di vario genere che sono accatastate nelle sterminate stanze della casa di Annuška. Ma lo stile narrativo è più lineare, a volte scarno, si risolve in periodi brevi, ben lontani dal cursus ornato, complesso e barocco di tante pagine delle Didascalie.
Dicevamo della definizione di genere, nel sottotitolo originale Otrošenko usa la parola “novella”, termine da lui spesso usato e dotato di un significato specifico, lontano, pare, da quello attribuitogli nella nostra lingua e nella nostra tradizione letteraria. Il traduttore ha scelto di renderlo con “racconti”, una scelta adeguata? Si ripropone nuovamente qui il problema, forse irrisolvibile, della traducibilità delle definizioni dei generi narrativi russi in italiano. Ma per una discussione dal punto di vista dello scrittore rimandiamo alla conversazione con lui pubblicata in questo stesso numero della rivista (pp. 15-20).
Vorrei concludere parlando di una caratteristica che mi pare contraddistingua la narrativa di Otrošenko, e cioè la sua particolare concezione di fantastico, che è andato sviluppando nella sua opera. Egli preferisce il principio del “fantastico gogoliano”, come lui lo definisce, e cioè una sorta di “diffusione”, in senso fisico del termine, del fantastico che rende difficile distinguere gli elementi fantastici da quelli reali. Secondo lo scrittore il fantastico rappresenta un tipo specifico di mimesi della realtà, per questo motivo non occorre sforzarsi per inventare di sana pianta qualcosa di fantastico, si tratta piuttosto di ritrovare particolari, luoghi, oggetti, avvenimenti che ne hanno tutte le caratteristiche, pur essendo perfettamente reali, storici. Per questo motivo Otrošenko è stato spesso definito dalla critica russa “mistificatore”, perché pur avendo cura di presentare sempre con grande esattezza e fedeltà i realia storici, riesce a esaltarne i tratti fantastici appunto, suscitando in tal modo inevitabilmente nel lettore dubbi circa la loro verosimiglianza. Un esempio lo troviamo nel racconto Il congedo dell’archivista in Testimonianze inattendibili. L’episodio della campagna dei 40000 cosacchi mandati dall’imperatore Paolo I nel 1801 a conquistare l’India non è una “trovata postmodernista”, come hanno sostenuto inizialmente alcuni critici, si tratta in effetti dell’unico particolare dotato di fondamento storico in tutto il racconto. Otrošenko sfrutta dunque il carattere assolutamente fantastico di questo episodio storico e lo inserisce in una struttura che, al contrario, assume tutti i tratti della verosimiglianza, pur essendo assolutamente fantastica. Si tratta di un processo camaleontico, il reale che si presenta come fantastico mentre il fantastico viene “truccato” come reale. In questa linea vanno viste anche le foto che corredano il testo del romanzo che qui recensiamo, combinazione divertente di una fedele ricostruzione dello stile fotografico d’epoca e di “appendici” inventate di sana pianta. Questo principio fantastico non è limitato alla narrativa, in Otrošenko si estende anche alla saggistica: di recente ha pubblicato un ciclo dal titolo Gogoliana. Come noto, il saggio è un genere che esige rigore scientifico, che non pare poter ammettere elementi di invenzione, di fantastico. Tuttavia, nel corso dello studio delle lettere di Gogol’ Otrošenko si è imbattuto in particolari che emergevano qua e là con una certa costanza e regolarità, che a ben guardare sono dotati di caratteri assolutamente fantastici. Proprio su questi tratti è costruito tutto il saggio, che quindi, pur avendo una solida base scientifica, acquista innegabili connotazioni fantastiche.
Vladislav Otrošenko sta riscuotendo, meritatamente, molto successo in Italia, ne è testimonianza il prestigioso premio Grinzane Cavour, ricevuto l’estate del 2004, assieme a Elena Kostjukovič e Evgenij Rejn, e l’invito a partecipare alle giornate della cultura russa e della piccola e media editoria tenutesi a Roma nel dicembre scorso. Un ruolo decisivo nella sua notorietà è stato svolto dall’opera di cura e traduzione di Mario Caramitti, che instancabilmente si adopera per diffondere in Italia la conoscenza di “schegge di Russia”, nonché della casa editrice Voland che sta portando avanti una politica editoriale coraggiosa alla quale auguriamo tutto il successo possibile.


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